notes on bone library: italian translation

Italian translation of the room sheet for Sarah-Jane Norman's Bone Library at Venice International Performance Art Week, December 2014.

note sulle ossa:
Uno scheletro umano adulto si compone di 206 ossa. Il più grande è il femore; i più piccoli sono i minuscoli ossicini sospesi all’interno dell’orecchio medio.
La loro funzione è triplice: meccanico-strutturale – l’ossatura forma la struttura portante della nostra anatomia, protegge i nostri organi e ci permette di muoverci; di sintesi – il midollo, contenuto nel canale midollare delle ossa lunghe, come il femore, è essenziale per l’emopoiesi, ovvero la produzione delle cellule ematiche e dei globuli bianchi; metabolica – le ossa contengono minerali, rilasciano gli ormoni che regolano il sistema endocrino, riforniscono l’apparato circolatorio di sali alcalini che contribuiscono a bilanciare l’acidità di base del corpo, e aiutano nella detossificazione ed eliminazione dei rifiuti estraendo e assorbendo metalli pesanti e altri corpi estranei dal sangue.

Il tessuto osseo, la parte più dura delle ossa, è una sostanza fibrosa. Se rotte, le ossa si “ricuciono” insieme. Le ossa sane hanno una notevole abilità nel guarire e rinnovarsi continuamente. Questa funzione è possibile poiché la matrice ossea, la “trama” delle nostre ossa, comprende sia cellule vive che morte. E’ questa la nobile verità della biologia, ugualmente compresa da scienziati e mistici: la vita e la morte sono intrecciate simbioticamente, e questo rapporto è essenziale per tutti i processi organici di rigenerazione e guarigione.

Mentre tutti gli altri tessuti organici iniziano rapidamente a decomporsi terminato il ciclo vitale, le ossa sopravvivono per un tempo indefinito. Frammenti di ossa resistono persino alle temperature estreme della cremazione. Relativamente morbide e porose, sono una delle sostanze più durevoli al mondo.

Le ossa ricordano la carne e ci parlano della sua dissoluzione. In questo senso si possono considerare come simboli del dominio della morte. Tuttavia, il Memento Mori non esaurisce in alcun modo il potenziale metaforico delle ossa. Le ossa sono una testimonianza non solo di ciò che si conclude, ma anche di ciò che persiste. Dicono di un’idea di nucleo, un fondamento, un’espressione o esperienza al livello più profondo: fino all’osso, ridotto all’osso. Le ossa di una qualsiasi cosa ne rappresentano l’essenza, il suo centro intuitivo, la sua stessa forza.

note sull’estinzione:
Prima della colonizzazione britannica, il continente australiano era abitato da circa 260 nazioni indigene, ognuna con una lingua, tradizioni e territori distinti. Delle 260 lingue indigene parlate in Australia prima del 1788, solo 60 sono ancora usate attivamente.

Diverse lingue indigene continuano ad essere largamente diffuse in aree remote (ad esempio il Pitjanjatjarra e l’Arrente nel deserto centrale). Altre, come il Wiradjuri e il Dharug (nell’entroterra del New South Wales, lo stato di cui Sydney è capitale), sono al momento al centro di un revival, grazie allo sforzo delle rispettive comunità. La stragrande maggioranza delle lingue indigene australiane, comunque, è classificata come “estinta”. Per essere classificata come tale, una lingua deve non solo non essere più parlata da nessuno, ma anche essere impossibile da recuperare: anche se rimangono testimonianze del vocabolario o di singole parole, il tessuto connettivo essenziale della grammatica è andato perduto. Questo è lo stato della maggior parte delle lingue indigene australiane.

L’aggettivo “estinto” è il termine di preferenza del mondo accademico. Molti studiosi e comunità indigene tuttavia lo criticano aspramente per essere un’espressione solitamente usata in riferimento a specie non umane. Questa parola assume una specifica connotazione se consideriamo che gli indigeni hanno ottenuto la piena cittadinanza della nazione australiana, membro del Commonwealth britannico, solo nel 1968. Prima di allora, i popoli della Prima Nazione australiana venivano “gestiti” sotto la legge che regolava flora e fauna.

note sugli ungulati:
Chiunque abbia viaggiato nell’outback australiano potrà confermare la prevalenza delle ossa: le ossa sbiancate di pecore e bovini sono una caratteristica comune del paesaggio. Durante le estati riarse ci sono sempre perdite di bestiame: gli animali muoiono e si decompongono sui campi, i loro resti rimangono sul luogo.

Il continente australiano è stato marcato tangibilmente e indelebilmente dalle pratiche dell’agricoltura europea introdotte dai coloni britannici, pratiche ampiamente incompatibili con il suo ambiente, che è uno dei più aspri e aridi della Terra. Ciononostante, queste pratiche sono state adattate nel tempo e l’Australia è uno dei maggiori esportatori del mondo di carne bovina e lana: quasi il 50% dell’area del continente è occupato dal settore della pastorizia. Il bestiame raggiunge un numero complessivo di 102 milioni di capi, quasi cinque volte quello della popolazione umana. L’Australia è il secondo produttore mondiale di carne bovina (dopo il Brasile) e 50% della lana Merino del mondo è prodotta in Australia.

Anche lasciando da parte il fattore economico, la mitologia della nazione australiana è strettamente intrecciata a queste sostanze basilari e alle modalità della loro produzione. L’Australia, secondo l’adagio, è stata “costruita sulle spalle della pecora”. Pecora è intercambiabile con bue, a seconda della regione in cui ci si trova. Questi animali sono come totem per il mito pastorale della frontiera australiana. L’immagine dello Stockman, l’iconico mandriano australiano, persiste all’interno della rappresentazione coloniale del conflitto fra uomo e natura, una mitologia del trionfo su un terreno impossibile, della stoica resistenza, del laconico eroismo mascolino. Un’infanzia australiana, anche se vissuta in città, è di solito marcata dalla visita annuale all’Easter Show: grandi fiere agricole tenute in ogni stato federale, in cui i prodotti delle varie regioni vengono messi in mostra e in competizione. Il culmine di questi eventi è il concorso del bestiame – allevatori e contadini gareggiano a chi produce la lana migliore, la carne migliore, il miglior latte. Anche i tosatori concorrono per diversi titoli.

Cumulativamente, l’impatto dell’allevamento di pecore e bovini sull’ambiente australiano è catastrofico. Vale la pena di notare che nessuno degli animali nativi dell’Australia ha zoccoli. L’allevamento di specie ungulate in quantità industriali contribuisce al rischio di estinzione delle specie native – grandi numeri di animali autoctoni (in particolare canguri) vengono abbattuti per rendere terreni adatti al pascolo – e alla progressiva erosione del fragile strato superficiale di terriccio, che sta gradualmente rendendo la terra sterile. Questo processo in particolare è denominato scalding (dal verbo to scald, scottare). Le aree sterili che sono il risultato della completa erosione del terriccio si chiamano scalds (scottature).

note sulla memoria:
Un “fatto” regolarmente riaffermato, in particolare durante le commemorazioni militari, è che “in terra australiana non è mai stata combattuta una guerra”. Gli Aborigeni australiani sanno che questo è palesemente e vergognosamente non vero. Le guerre della frontiera australiana sono durate quasi un secolo e hanno portato alla morte di un numero sconosciuto di indigeni australiani, lo sradicamento ed estirpazione di interi clan, e l’esproprio in massa di altri. La fondazione della colonia penale britannica e gli interessi associati è solo una parte della causa di ciò. Molti dei più grandi e brutali massacri di indigeni in diverse parti dell’Australia non sono stati perpetrati direttamente dalle autorità coloniali ma dagli allevatori, i cui interessi erano commerciali, e le cui azioni venivano tacitamente approvate dal Commonwealth; dopo tutto, c’era un diretto interesse tanto nella prosperità della nuova colonia quanto nella graduale estirpazione della sua irrequieta popolazione nera. I luoghi dei massacri di indigeni rimangono per lo più non segnalati né riconosciuti nella cultura generale. È una crudele ironia che il 28 Gennaio, la festa annuale della nazione australiana, sia anche l’anniversario del massacro di Waterloo Creek.

I blackfellas (termine colloquiale usato dagli aborigeni per definire sé stessi) recalcitranti o dissidenti venivano regolarmente sistemati in questo modo fino al XX secolo inoltrato. L’ultimo massacro violento di aborigeni si è registrato nel 1928. Più avanti è subentrato un cambiamento di tattica, e l’introduzione di una politica di assimilazione più “progressista”. Questa ammontava a niente meno che una politica federale di genocidio istituzionalizzato, diretto esplicitamente a una progressiva scomparsa dei popoli nativi tramite il controllo della procreazione. Pratiche del genere erano diffuse in tutti i territori coloniali britannici, ma la loro implementazione è stata particolarmente aggressiva in Australia. Uno dei risultati di questa politica sono state le cosiddette Stolen Generations (Generazioni Rubate): una serie di politiche giustificate da una pseudoscienza basata sull’eugenetica, per nulla dissimile da quella che pervadeva la Germania nazista, che ha portato un gran numero di bambini aborigeni di pelle chiara a essere separati con la forza dalle loro famiglie di origine e rinchiusi in orfanotrofi. Tenuti sotto divieto di parlare le proprie lingue e di continuare le proprie pratiche sociali, culturali e spirituali, questi bambini erano visti come potenziali candidati per un’eventuale assimilazione nella società bianca. La maggior parte di questi bambini non ha mai più rivisto le proprie famiglie. Molti sono tornati alle proprie terre di origine anni dopo, per scoprire che gli ultimi membri rimasti delle proprie famiglie o clan erano morti o se ne erano andati.

La vasta maggioranza dei bambini rubati venivano educati a lavorare nella servitù domestica (le ragazze) o nelle fattorie e allevamenti (i ragazzi). Molti diventavano parte di questa forza lavoro coatta da giovanissimi.

Le stations (allevamenti) di bovini e ovini contavano già in gran parte sul lavoro di uomini e donne indigeni, che spesso accettavano lavoro sottopagato o non pagato “in cambio” della propria sopravvivenza e della possibilità di rimanere sulle proprie terre ancestrali. Non è un segreto che le condizioni in cui la maggior parte di loro lavoravano fossero di sfruttamento nel migliore dei casi, e di atroce crudeltà e violenza nel peggiore. L’abuso sessuale di donne e bambini era particolarmente comune; siccome fino al 1968 gli aborigeni non erano legalmente considerati cittadini australiani, la legge non offriva loro praticamente alcuna protezione. L’inclusione di bambini rubati nella forza lavoro dell’agricoltura australiana ha contribuito a esacerbare la struttura esistente di sfruttamento lavorativo. L’adagio secondo il quale la nazione australiana è stata costruita sulle spalle della pecora si può estendere facilmente: il settore della pastorizia australiana è stato costruito in modo non trascurabile sulle spalle dei suoi popoli nativi.

note sulla commemorazione:
Le ossa hanno un ruolo importante nei riti tradizionali del lutto. Nonostante le differenze regionali nelle cerimonie funebri tradizionali del continente australiano, in linea di massima ci sono due momenti: dapprima, le spoglie vengono lasciate a decomporsi naturalmente in un tronco cavo o in un posto similmente protetto. Questo processo si conclude quando le ossa sono state ripulite e la terra e gli animali si sono presi ciò che è loro. A questo punto lo scheletro viene recuperato e le ossa divise fra i partecipanti al rito. I parenti mantengono un legame con i loro consanguinei portando con sé questi frammenti di ossa. Questo è uno fra molti riti tradizionali che sono stati proibiti o resi impossibili da celebrare sotto la legge del Commonwealth.

Altri rituali di commemorazione, che sono forse più simili al paradigma occidentale, sono basati sulla dolente ripetizione da parte dell’officiante. Su mura di granito, incidiamo elenchi dei Morti Gloriosi. I dizionari spesso hanno la stessa funzione: custodire e ricordare.

note sugli artefatti:
Il cranio di Pemulwuy, un guerriero Bidjigal che era stato a capo di un’accanita resistenza contro i primi coloni britannici a Port Jackson (Sydney) si trova di questi tempi da qualche parte in Inghilterra (il luogo preciso è sconosciuto), dove è stato spedito dopo la fucilazione e successiva decapitazione del suo proprietario nel 1802. Questo è uno degli innumerevoli resti umani ottenuti con metodi dubbi che popolano le cantine di musei antropologici e collezioni private in tutto il mondo. Senza dubbio la testa di Pemulwuy è stata portata in Inghilterra come un trofeo. Cionondimeno, la tarda epoca vittoriana vide anche un’esplosione del commercio di resti umani di aborigeni puramente al servizio della curiosità borghese: in seguito all’affermazione di Darwin che l’aborigeno australiano era “l’uomo più primitivo del mondo”, scoppiò la moda di possedere un osso di un “nuovo olandese” come una curiosità.

Nel 2006 uno storico processo ha visto il British Museum restituire diversi sudari pieni di ossa umane al popolo della Tasmania. Questo è stato il primo caso di una restituzione del genere da parte di una tale istituzione.

I clan di Sydney hanno dato vita a diverse petizioni per rimpatriare i resti di Pemulwuy e dargli una degna sepoltura. Fino ad ora però non è stato possibile individuarne il cranio.

note sugli errori di traduzione:
All’epoca del Primo Contatto, nella lingua della costa di Sydney c’era una parola che denotava sia la persona che parlava (‘persona’) che il posto di cui questa persona era originaria (‘qui, questo posto’). Essere e luogo erano espressi in questa lingua in un unico concetto.

Nel primo incontro documentato fra gli ufficiali della marina britannica e gli indigeni australiani, ai custodi tradizionali venne domandato chi fossero, come si chiamasse il loro popolo. Questi risposero con la parola ‘Eora’, che significava tanto ‘siamo’ quanto ‘siamo questo posto’. Questa parola, in genere tradotta semplicemente come ‘persona’, di fatto contiene una più ampia espressione dell’unità essenziale fra essere e luogo, un fatto che rimane integrale alla visione del mondo degli aborigeni. I linguisti britannici inserirono questo termine nella loro struttura di denominazione, e la parola Eora fu scambiata per il nome del gruppo tribale. E così, la nostra storia indigena post-contatto di Sydney, il primo insediamento e il punto di origine dell’espansione coloniale, è marcata da un errore irreparabile. La cosiddetta nazione Eora si estende dalla costa fino a Parramatta a ovest, il fiume Georges a sud e l’Hawkesbury a nord, e include i clan Gadigal, Cammeraygal e Wanegal. Il vero nome della Sydney precoloniale è andato perduto per sempre.

Non c`è un termine generico per indicare ‘malattia’ o ‘malore’ nelle lingue di Sydney, ma c’è una parola, una parola molto specifica, per il ‘vaiolo’ – la cui introduzione da parte dei coloni (che, stando a un’opinione controversa ma diffusa fra diversi storici, è stata un atto intenzionale di guerra batteriologica) ha causato la morte di un numero sconosciuto di membri del popolo Eora.

Verso la metà del XIX secolo una documentazione più o meno esauriente delle lingue Eora era stata completata, anche se a quel punto queste erano parlate da pochissime persone. All’inizio del XX secolo già non era rimasto nessuno che parlasse le lingue di Sydney.

note sulla mia bisnonna e l’interferenza della lingua madre:
Il fenomeno dell’interferenza della lingua madre si riscontra per lo più fra individui poliglotti la cui lingua madre è diventata inattiva attraverso la mancanza d’uso, e che comunicano quotidianamente in una seconda lingua di cui hanno un’alta padronanza. In questi individui accade che il vocabolario di adozione venga sostituito involontariamente da parole o espressioni equivalenti nella loro lingua madre. La lingua madre inizia ad affermarsi convulsamente fra le parole straniere, disturbando e interrompendo la struttura della comunicazione.

La mia bisnonna si chiamava Elizabeth Harriet Higgins. Era nata e cresciuta a Maitland, in terra Wonnarua, ma visse la maggior parte della vita a Nyngan, dove era un membro conosciuto e rispettato della comunità aborigena. Quando morì venne sepolta qui, in terra Wiradjuri. Nonna Higgins e sua figlia Sally ‘Zia Biddy’ Clark erano le due matriarche che hanno cresciuto mia madre.

Mia madre, che all’epoca aveva 12 anni, si ricorda di Nonna Higgins seduta nel retro della loro casa a Parramatta, a Sydney ovest, che parlava e cantava da sola in una lingua che lei non capiva. Quando domandò ad altri familiari che cosa dicesse la nonna, la risposta sprezzante fu che “farneticava”. Le dissero che sua nonna era senile. Questo era in parte vero. Man mano che subentrava la senilità, lei andava perdendo il controllo dell’inglese, che era la sua seconda lingua, finché ogni sua comunicazione fu nella lingua della sua terra, una lingua che nessun’altro capiva in quella casa.

I motivi di ciò sono complessi: sotto la politica ufficiale dell’assimilazione, le famiglie aborigene venivano sorvegliate scrupolosamente dallo stato. La pressione per l’abbandono di tutti i legami con la cultura tradizionale era continua, e la disubbidienza portava con sé serie conseguenze, specialmente per le famiglie con bambini dalla pelle chiara, che avrebbero potuto essere portati via in ogni momento. Gli aborigeni in grado di confondersi con i bianchi (to “pass” as white) erano attivamente incoraggiati a farlo. Ci furono persino veri e propri incentivi, i “certificati di esenzione” (o dog tags, “medagliette dei cani”, come venivano chiamati dagli aborigeni). Questi contratti venivano sottoscritti da individui o famiglie aborigene, che di solito vivevano e lavoravano in aree urbane e si impegnavano a tagliare tutti i legami – culturali, sociali, linguistici – con la propria cultura, in cambio dei limitati privilegi di una cittadinanza parziale. Non è chiaro se uno di questi certificati sia stato rilasciato alla mia famiglia. In ogni caso è certo che la continuità di quella lingua nella mia famiglia è andata perduta con la scomparsa di Elizabeth nel 1960. Il Wonnarua è una lingua estinta; possiamo supporre che mia nonna sia stata una delle ultime persone a parlare la sua lingua madre.

Sarah-Jane Norman, 2014